Temi e Percorsi di Autonomia Speciale
L’ordinamento regionale italiano vive oggi (2014) una stagione difficile – anzi, difficilissima – benché, a ben vedere, non abbia mai avuto vita facile. Le autonomie ordinarie si vedono private di un potenziale di governo che, anche per responsabilità proprie, dal 2001 non sono riuscite a valorizzare. Anche le autonomie speciali scoprono quanto fragili siano le garanzie costituzionali che avrebbero dovuto tutelarle dalle insidie del centralismo stato-centrico, mai davvero espunto dalla cultura di governo nazionale, per quanto mediocre sia stata la performance delle istituzioni dello Stato e delle relative politiche pubbliche.
Solo la nobile tensione ideale degli anni dell’immediato dopoguerra e dell’Assemblea Costituente – inversamente proporzionale al dramma della dittatura fascista e della guerra - era riuscita a recuperare un’idea risalente nella storia dell’unificazione e ad imprimere alla nuova forma dello stato repubblicano una significativa innovazione – rispetto anche al pregresso assetto statutario (che, del resto, era stato concepito per il ben diverso contesto sardo-piemontese) –, sia introducendo il valore dell’autonomia fra i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale (art. 5), sia riconoscendo la pluralità delle culture e delle identità, oltre che (a partire almeno dai territori più disagiati e marginali) della rispettiva diversità dei ritmi e dei percorsi di sviluppo civile, sociale ed economico (art. 116), anche in applicazione dell’art. 6 (a sua volta strettamente connesso con le condizioni legate al trattato di pace del 1946).
Con l’eccezione, dunque, delle cinque autonomie speciali – esse stesse, peraltro, in un contesto che aveva ereditato la cultura, oltre che la prassi, del centralismo pre-repubblicano -, la successiva stagione di (in)attuazione della Costituzione ha prodotto una lunga mortificazione dell’innovazione costituzionale espressa dalle Regioni, protratta per circa un quarto di secolo, al termine della quale si è finalmente avviata una fase ambigua ed ambivalente, nella quale a momenti di apparente autentica regionalizzazione si sono susseguiti orientamenti concreti di segno nettamente contrario. Il sistema politico nazionale si è per lo più uniformemente riprodotto anche nel quadro regionale, in modo da funzionare prevalentemente quale cinghia di trasmissione fra “centro” e “periferia” – ciascuno destinato a rimanere tale - finalizzata a garantire il trasferimento di fondi del tutto scollegati dalla capacità istituzionale, da una progettualità politica propria, dalla responsabilità connessa ad una autonoma potestà impositiva.
La chimera del federalismo - descritto in modo semplicistico e altrettanto semplicisticamente assunto quale obiettivo dichiarato ma non autenticamente fatto proprio anche da parte dei sostenitori di visioni tradizionalmente centraliste (se non addirittura nazionaliste) – ha almeno indirettamente ispirato, nel 2001, la nota revisione costituzionale, generando aspettative inversamente proporzionali alla successiva frustrazione risultante dalla verifica della prevalente incapacità attuativa (da parte dello Stato come delle Regioni stesse). Forse anche la rotazione delle forse politiche nel ruolo di maggioranza di governo e di opposizione – rispetto alla situazione nella quale è stata deliberata la riforma del 2001 – ha contribuito ad impedire una coerente e tempestiva trasposizione dei margini di autonomia delineati dalla revisione nella quotidianità dell’azione di governo.
Nelle more della concretizzazione del nuovo quadro delle competenze, sull’incertezza politica si è poi innestata anche una giurisprudenza costituzionale particolarmente restrittiva, che si è sistematicamente imposta quale garante dell’unitarietà dell’interesse nazionale, come già aveva fatto trasformando quest’ultimo da parametro politico suscettibile di intervento parlamentare in criterio giuridico-costituzionale del quale offrire definizione, elementi ricostruttivi, margini di efficacia e del quale salvaguardare l’effettività.
L’orientamento interpretativo in atto della Corte costituzionale – che finisce con incidere sulla percezione stessa del suo ruolo di garanzia - ha verosimilmente inciso anche sulle autonomie speciali che, in attesa di tempi migliori - si sono appagate dalla clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 (“Sino all'adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”) e non hanno dato seguito ad un indispensabile adeguamento dei rispettivi statuti (la cui legge costituzionale di approvazione richiedeva il concorso di una maggioranza qualificata che, a torto o a ragione, non appariva politicamente disponibile)
La crisi economica e finanziaria che si è protratta ed ulteriormente e progressivamente aggravata nell’ultimo quinquennio e l’intervento di fonti di diritto internazionale e dell’Unione Europea cui si è fatto ricorso per contenerla e gestirla hanno maturato le condizioni per pervenire, con una celerità della proposta della sedicente terapia (la ri-centralizzazione) equivalente solo alla superficialità della diagnosi e del titolo di legittimazione del terapeuta (lo Stato centrale), alla prospettazione di una “revisione della revisione” della seconda parte del Titolo Quinto della Costituzione.
Si tratta, in realtà, di una crisi economica e finanziaria che sta segnando in modo probabilmente irreversibile il paradigma europeo dello stato sociale di diritto e dunque descrivere la situazione quale esclusiva dell’ordinamento italiano sarebbe del tutto miope e distorsivo. E’ vero, nondimeno, che solo in Italia (e, in misura minore, in Spagna – le due “avventure regionali europee” dal 1931 in avanti) si assiste ad un processo di crollo di una struttura istituzionale ancora incompleta e alle cui potenzialità non è stata concessa una chance adeguata.
Questi rilievi impongono una riflessione critica che consenta di ragionare sull’esperienza regionale pregressa e di prospettare per il futuro dinamiche di sviluppo che partano dalla valutazione dell’autonomia regionale come un valore costitutivo dell’ordinamento e, in particolare, dalla percezione dell’autonomia regionale differenziata come de il modo di essere delle rispettive comunità. Quest’ultimo profilo si rivela essere cruciale per tutte le autonomie speciali anche se in questo contesto di ricerca, senza trascurare di sollecitare ulteriori contributi, esso viene approfondito con particolare impegno per l’area delle Autonomie Speciali Alpine (A.S.A.), ossia Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, Alto Adige/Südtirol, Trentino, Friuli-Venezia Giulia.
In fase di avvio della ricerca, la riflessione si propone di avere ad oggetto principalmente (i) lo studio della specifica trattazione in tema di autonomie speciali offerta nei manuali – quali sede autorevole non solo di formazione di nuove generazioni di giuristi ma anche di elaborazione dei profili sistematici dell’ordinamento costituzionale e dei suoi connotati specificamente concernenti l’assetto regionale differenziato; e (ii) un’analisi dei progetti di revisione costituzionale presentati nel corso della legislatura in corso e di quella precedente, con particolare riguardo per le autonomie speciali.
R.T.
Working Papers
F. Cretti, Referenda on Secession: Montenegro, Scotland and Catalonia Compared (19.08.2022)
O. Peterlini, Dalla Regione all'Unione regionale (22.11.2021)
G. Pallaver, Per una nuova Unione regionale europea Trentino-Alto Adige/Südtirol-Tirolo (8.11.2021)
Autonomie speciali ed emergenza pandemica - Gruppo di studio e ricerca (15.06.2020)
G. Postal, Autonomia speciale alpina e controllo della spesa pubblica (2014).
R. Louvin, Spirito comunitario, autonomia e federalismo nell’area alpina (2015).
M. Carli, Il regionalismo differenziato come sostituto del principio di sussidiarietà (2019)